III Edizione

Festival del Carciofo Romanesco a Portico d’Ottavia (Roma)

Dal 7 al 10 Aprile 2024

Chiamato anche “cimarolo” o “mammola”, il carciofo romanesco è da sempre considerato il re dell’orto e fiore all’occhiello della cucina romanesca. 

La tipica zona di produzione è il litorale laziale con i comuni di Cerveteri e Ladispoli (a circa 40 km di distanza da Roma), ma anche Allumiere, Campagnano, Civitavecchia, Fiumicino, Santa Marinella, Tolfa e Roma ed alcuni comuni di Latina (Sezze, Priverno, Sermoneta e Pontinia) e Viterbo (Montalto di Castro, Canino, Tarquinia). Tutte queste aree sono da sempre vocate alla sua produzione grazie al clima mite, ai terreni di medio impasto, umidi e ben drenati nonché ricchi di ferro. 

Appartenente alla famiglia Cynara Scolymus è una pianta erbacea perenne, che può durare oltre dieci anni, coltivata in due cultivar: Castellammare e relativi cloni (il cui periodo di produzione è inizio gennaio) e Campagnano e relativi cloni (periodo di produzione marzo-aprile). La parte edule del carciofo è l’infiorescenza, o capolino, caratterizzata da una forma sferica e compatta, da foglie di colore verde violetto, senza spine e da un cuore morbido e tenero. Ha un odore di erbaceo spiccato e qualità organolettiche inconfondibili: un sapore erbaceo e leggermente amarognolo che man mano ci si avvicina al cuore, diventa più dolce. 

La coltivazione richiede molte cure da parte dei cinaricoltori che effettuano una raccolta manuale che ha inizio a gennaio e si protrae fino a maggio. Dopo la raccolta, per apprezzarne appieno il gusto e la qualità, va consumato freschissimo e non conservato a lungo in frigorifero. Al momento dell’acquisto è bene scegliere carciofi pieni e sodi, con foglie dure e ben serrate e senza macchie. Se sono molto freschi e hanno il gambo lungo è possibile immergerli nell’acqua come si farebbe con i fiori freschi. 

Il carciofo è una pianta originaria dei paesi del Mediterraneo orientale, sulle cui origini abbondano ipotesi e congetture. Molti affermano che a iniziarne la coltivazione furono gli Egizi (che pare lo utilizzassero largamente come pianta medicinale), altri sostengono siano stati gli Etruschi, come sembrerebbero testimoniare le raffigurazioni parietali di foglie di carciofo in alcune tombe della necropoli etrusca di Tarquinia. 

Accenni al carciofo si rintracciano nella storia greca e romana. La mitologia greca ne narra la nascita attraverso la leggenda di Cynara, una ninfa bellissima che fece invaghire di sé Zeus che, geloso, la trasformò in ortaggio verde, spinoso ma dal cuore tenero. Il filosofo greco Teofrasto (III sec. a.C.) decanta le virtù dei cardii pineae, mentre Plinio il Vecchio nel I sec. d.C. accenna all’uso nella cucina romana. In particolare, nella sua Naturalis Historia, lo storico annovera diverse varietà di cardi e tra essi un tipo che produce “fiori spessi e viola, aventi un unico stelo”, probabile progenitore degli attuali carciofi. Egli elenca anche le proprietà curative dell’ortaggio che oltre ad essere un afrodisiaco e un diuretico naturale avrebbe avuto anche una funzione nella cura dell’alopecia, dell’alitosi, dell’indigestione ed un potere nel concepimento di figli maschi! 

Anche Columella nel suo De Re Rustica oltre a descriverne modi, tempi di coltivazione e proprietà fa accenno alle sue proprietà organolettiche. Lo definisce caro a Bacco poiché dopo “un suo boccone il palato è dolce ad ogni tipo di vino”. Nel suo trattato di cucina, De re coquinaria, Apicio riporta spesso i carciofi nelle sue ricette, come quelli conditi con il famoso garum o i cuori di cynara di cui i Romani erano ghiotti se lessati in acqua o vino. Dopo il periodo dell’impero romano, del carciofo si perdono le testimonianze storiche. Furono gli Arabi che lo riportarono in cucina, e non a caso il termine carciofo deriva proprio dall’arabo al-karshuf ovvero “spina di terra” e “pianta che punge”. Molto più tardi, persino durante il Rinascimento si fa riferimento a questo ortaggio. Lo stesso cuoco barocco in Vaticano, Bartolomeo Scappi, ne parla nel suo trattato di cucina ed i viaggiatori del Grand Tour ottocentesco raccontano che nel Lazio al mercato si potevano acquistare 30 carciofi per “un paolo”. 

Ma è solo dopo gli anni ‘40 e ‘50 che il carciofo cominciò a diffondersi grazie ad un sistema di coltivazione intensiva, soprattutto nell’area costiera. E proprio a questi anni risalgono le prime saghe dedicate al re dell’orto, come quella di Ladispoli, in cui il carciofo si festeggia da oltre mezzo secolo. 

Il carciofo è una pianta originaria dei paesi del Mediterraneo orientale, sulle cui origini abbondano ipotesi e congetture. Molti affermano che a iniziarne la coltivazione furono gli Egizi (che pare lo utilizzassero largamente come pianta medicinale), altri sostengono siano stati gli Etruschi, come sembrerebbero testimoniare le raffigurazioni parietali di foglie di carciofo in alcune tombe della necropoli etrusca di Tarquinia. 

La lunga tradizione colturale di questo ortaggio a Roma e nel Lazio ha fatto sì che il carciofo divenisse un ingrediente basilare della gastronomia romanesca, protagonista di molti piatti tipici. 

Se particolarmente fresco e tenero, i romani sono soliti consumarlo crudo, tagliato a fettine e condito con olio e limone. La tradizione lo predilige anche “alla romana”, cotto a fuoco lento e condito con pangrattato, aglio, prezzemolo, pepe e abbondante olio. Ma il piatto più conosciuto a Roma è “alla giudìa” fritto nell’olio con il gambo in alto e bello croccante. 

La sua origine è legata a doppio filo alla cucina giudaico-romanesca ed alla comunità ebraica di Roma. 

Dare una definizione univoca di cucina giudaico romanesca non è però semplice perché è difficile stabilire dove inizi la cucina ebraica e finisca quella romanesca e viceversa, tanto la vita delle due comunità si è fusa col tempo, anche in considerazione del fatto che la comunità ebraica di Roma è la più antica in Europa e la sua presenza nella città eterna risale al II secolo a. C. 

Di certo si tratta di una cucina che rispetta l’insieme delle regole alimentari ebraiche che provengono direttamente dai precetti della Torah: la Kasherut. Essa è inoltre condizionata da forti influssi meridionali e tirrenici e che fondendosi nel tempo con la cucina romana è divenuta una cucina molto elaborata, in parte per trasformare alimenti poveri in piatti gustosi, in parte per la solennità che il cibo ha da sempre rivestito per il popolo ebreo. Si tratta, comunque, di una cucina raffinata ed ingegnosa, resa interessante dalle sue note orientali e dall’uso di ingredienti molto profumati come uvetta, pinoli, cannella e chiodi di garofano. Uno degli ingredienti principali di questa cucina è sicuramente la carne, soprattutto i tagli meno nobili e le frattaglie definite a Roma del “quinto quarto” che prima di essere cucinate venivano in passato ben arrostite sulla graticola per togliere ogni traccia di sangue. Un ruolo importante lo avevano i piatti di pesce, come il brodo fatto con gli scarti del mercato che si teneva proprio sotto il Portico di Ottavia tutti i giorni. Tutti gli scarti delle vendite venivano accatastati nei pressi della chiesa di Sant’Angelo in Pescheria dove le donne ebree andavano a raccoglierli per trasformarli in piatti prelibati. Nei dolci, nell’uso di frutta secca, miele e canditi, si percepisce ancora oggi la tradizione arabo-spagnola e mediterranea. 

Un ruolo di tutto rispetto nella cucina ebraica-romanesca lo hanno però soprattutto i fritti: i carciofi, i fiori di zucca impastellati ripieni di mozzarella, i filetti di acciuga ed i filetti di baccalà. Il carciofo alla giudia è forse il piatto più famoso, preparato da tutti i ristoranti del ghetto ed offerto caldo e croccante alle centinaia di turisti che fanno la fila per assaggiarlo. 

Nel ghetto ebraico le donne ebree erano solite cucinare le mammole da mangiare alla fine della ricorrenza del Kippur, la festa dell’espiazione in cui per ventiquattr’ore si osserva il digiuno totale ed una preghiera continua. 

La presenza della comunità ebraica nella città eterna risale al II secolo a. C.: i primi rapporti tra Roma e l’ebraismo sono attestati nel Libro dei Maccabei nella Bibbia al 161 a.C.. A partire da allora, una volta stanziatasi definitivamente, la comunità ebraica divenne uno dei nuclei più antichi di Roma, il più tradizionale e il più conservatore del sapere ed anche dei sapori.

Alla fine del Quattrocento la comunità si ingrandì enormemente poiché nel 1492 il re Ferdinando II decretò l’espulsione degli ebrei da Spagna, Portogallo e Italia meridionale. Molti degli ebrei espulsi si rifugiarono nella città eterna, fondendosi non senza problemi con la comunità precedente e venne regolata solo nel 1524 mediante i Capitoli di Daniel da Pisa, che ridisegnarono il governo della comunità così da includere romani e stranieri.

Nel 1555 Papa Paolo IV istituì un ghetto ebraico nella zona di Sant’Angelo in Pescheria, da cui gli ebrei non potevano uscire (i portoni delle case venivano proprio chiusi durante tutta la notte). La ghettizzazione fu abolita solo nel 1870, e da questo momento in poi anche persone non di origine ebraica si trasferirono nell’ex ghetto.

Lo stesso ghetto fu sede poi nell’ottobre del 1943 di un rastrellamento di oltre mille ebrei.

Oggi il quartiere, è uno dei più affascinanti della città, grazie al coacervo di culture dei suoi abitanti (la comunità è formata da circa 15.000 membri di origini differenti), alla maestosità della Sinagoga, ai vicoli ed alle piazzette ma anche grazie alle vestigia di monumenti, antichi testimoni di questa storia travagliata e affascinante.

Nell’area del ghetto doveva sorgere il Circo Flaminio (oggi scomparso) circondato da grandi portici.

L’unico ancora in parte conservato è il Portico di Ottavia costruito da Augusto in onore della sorella. Il monumento, che dopo aver subito i danni di un incendio, fu restaurato e ricostruito in parte da Settimio Severo, era un quadriportico che includeva i templi di Giunone Regina e Giove Statore, due biblioteche e la Curia Octaviae, un grande ambiente per pubbliche riunioni. A partire dal Medioevo, gli spazi porticati del monumento ospitarono il mercato cittadino per la vendita del pesce che rimase attivo fino alla fine dell’800 e che diede alla zona il nome di Forum piscium o Pescheria Vecchia.

È ancora visibile sullarco liscrizione latina CAPITA PISCIUM HOC MARMOREO SCHEMATE LONGITUDINE MAJORUM USQUE AD PRIMAS PINNAS INCLUSIVE CONSERVATORIBUS DANTO” che riporta la tradizione secondo la quale ai magistrati del Campidoglio doveva essere dato ogni pesce, dalla testa fino alla prima pinna, la cui lunghezza era maggiore della stessa pietra. Nell’VIII secolo sulle strutture del portico fu costruita la chiesa dedicata a Sant’Angelo conosciuta con il nome di Sant’Angelo in Pescheria.

Il Festival  Dal 7 al 10 Aprile 2024

OGNI GIORNO

A PRANZO E A CENA

È consigliata la prenotazione 

Rassegna Gastronomica

con

MENU SPECIALE DI CARCIOFO A 35€

SARANNO PRESENTI ANCHE NUMEROSI ARTISTI DI STRADA, TRA CUI TRAPEZZISTI, PRESTIGIATORI E GIOCOLIERI.

IL 30 MARZO, LA CENA SARÀ ALLIETATA DAI FIGLI DI ALVARO AMICI, NOTO GRUPPO DI STORNELLATORI ROMANI.

SI RICORDA INOLTRE CHE A LARGO XVI OTTOBRE, SARANNO PRESENTI I MERCATINI DI COLDIRETTI.

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